Il federalismo fiscale venne insediato nell’ordinamento con la legge delega del 13 maggio 1999 n. 133 recante «Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale», cui il Governo dell’epoca presieduto da Massimo D’Alema diede attuazione con il decreto delegato 56/2000. Il provvedimento soppresse i trasferimenti statali (quelli della sanità furono sostituiti dalla compartecipazione delle Regioni all’Iva, originariamente del 25,7% del gettito territoriale), elevò l’addizionale dell’Irpef e istituì il Fondo perequativo nazionale. Un’anticipazione regolativa di quanto sancito successivamente nella revisione del Titolo V, Parte II, della Costituzione approvata (dopo l’intervenuto referendum confermativo, ex art 138 della Carta) con la legge costituzionale 7 ottobre 2001 n. 3. Questa riforma esplicò il principio della Repubblica (art. 114) unica e indivisibile, il regionalismo differenziato (art. 116, comma terzo, abilitativo delle modifiche delle competenze legislative assegnate allo Stato e alle Regioni nell’art. 117) e introdusse con il novellato art. 119 una nuova metodologia di finanziamento del sistema autonomistico territoriale, la previsione dello strumento perequativo e delle misure redistributive a garanzia delle Regioni prive della capacità fiscale sufficiente ad assicurare l’esigibilità delle prestazioni essenziali e delle funzioni fondamentali affidate agli enti locali. Il regionalismo differenziato, preteso oramai da quasi tutte le Regioni in una parabola crescente iniziata la scorsa primavera – successiva ai referendum celebrati in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna nell’autunno del 2017 – assume il ruolo di argomento principe, sul quale si è aperta una disputa dialettica tra favorevoli e contrari. Un confronto che si intensifica in vista degli imminenti atti che il Governo dovrà compiere per prossimo 15 febbraio, entro il quale inviare la prevista proposta di intesa alle tre Regioni interessate.